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Introduzione
Elettroshock, uno dei titoli meno accattivanti per una delle pratiche terapeutiche meno ben viste all’interno della medicina moderna.
È sufficiente pronunciare il nome per evocare subito immagini poco rassicuranti di vecchi film dell’orrore, scienziati pazzi e parafulmini. E anche se è chiaro che non può essere realmente così terribile, visto che viene utilizzata a tutt’oggi, il sospetto rimane.
Vediamo quindi di fare un po’ di luce sull’argomento.
Di cosa si tratta?
L’elettroshock (nome tecnico ‘Terapia ElettroConvulsivante’, in breve ‘TEC‘) è un trattamento che consiste nell’applicare una corrente elettrica all’encefalo. Questa corrente è applicata in anestesia generale per tempi brevissimi, nell’ordine dei decimi di secondo, insieme ad un trattamento mirato ad impedire che gli impulsi nervosi facciano contrarre la muscolatura scheletrica.
Le convulsioni che il trattamento provoca sono la manifestazione dell’effetto che la corrente sta avendo sul sistema nervoso centrale, che è la parte che ha il vero effetto terapeutico; e proprio in virtù di ciò la convulsione causata è estremamente debole, al fine di evitare danni ai muscoli o allo scheletro, per quanto osservabile attraverso elettrocardiogramma.
Per cosa si usa?
L’utilità principale dell’elettroshock consiste nel trattamento della depressione grave, soprattutto se aggravata da psicosi o nei casi in cui il paziente non risponde né ai farmaci, né alle psicoterapie ordinarie.
Oltre a ciò, l’elettroshock può essere utilizzato ragionevolmente anche come intervento d’urgenza contro pazienti a serio rischio di suicidio oppure in casi di arresto psicomotorio; di nuovo, questa è l’opzione più sicura per quei soggetti che resistono ai farmaci o non li possono assumere.
Meno ragionevolmente, invece, l’elettroshock è utilizzato anche per il trattamento della depressione resistente o altri disturbi psichiatrici persistenti in virtù della sua mancanza di effetti collaterali, sebbene esistano trattamenti farmacologici più indicati; in questi casi, il trattamento può essere inefficiente nei casi migliori, e dannoso (in quanto distoglie da terapie realmente efficaci) in quelli peggiori.
È sempre opportuno consultare un medico, prima di scegliere un qualsiasi trattamento.
Come si usa?
La terapia elettroconvulsionante si svolge nell’arco di più sedute, solitamente comprese tra le 6 e le 12, intervallate dalle 24 alle 48 ore; la corrente più comunemente utilizzata misura 0,9 Ampere e ha un voltaggio compreso tra i 250 e i 450 Volt.
Elettrodi di metallo sono applicati al cranio del paziente dopo che le parti interessate sono state adeguatamente cosparse di un gel che riduce l’impedenza della corrente elettrica, così da evitare ustioni; per evitare contrazioni indebite della muscolatura si induce poi una paralisi artificiale dei muscoli per mezzo di farmaci, i cosiddetti “curari” sintetici.
La corrente può essere applicata da entrambi i lati oppure uno solo, ma è generalmente preferito su entrambi al fine di conservare l’efficacia del trattamento.
Gli effetti collaterali
L’effetto collaterale più evidente dell’elettroshock che, 3 volte su 4, il paziente non riesce a ricordare se non confusamente ciò che è successo il giorno della seduta, mentre al suo risveglio può sentirsi disorientato per un po’ a causa dell’anestesia; le amnesie si riassorbono spontaneamente nel corso del tempo, con l’eccezione di quelle concentrate sui giorni dei trattamenti.
Gli studi scientifici svolti in merito alla terapia elettroconvulsiva hanno dimostrato che l’amnesia è il rischio principale che si può avere da un trattamento adeguatamente eseguito, e non solo non hanno trovato correlazione tra la terapia e danni strutturali o funzionali permanenti ma ha invece provato che protegge dai danni che la depressione tende ad indurre nel sistema nervoso centrale, stimolandone la crescita e riducendone l’atrofizzazione.
La cattiva fama
Il novecento ha visto la sua grandissima parte di trattamenti “rivoluzionari” dagli effetti “sconcertanti” e “strabilianti” – basti pensare come, nella prima metà del novecento, le radiazioni venissero viste come una qualche sorta di magica panacea per tutti i mali – ed è principalmente a quell’epoca di esperimenti poco scientifici e sperimentazione selvaggia che si deve la cattiva nomea dell’elettroshock.
I motivi sono molteplici. Prima di tutto, il trattamento era usato contro disturbi per i quali era completamente inefficace se non dannoso, e come è ormai tristemente noto abbandonare una terapia per quanto lenta in favore dell’ultimo ritrovato della medicina non è garanzia di salvezza; poi, ai tempi la terapia elettroconvulsiva si applicava senza anestesia e senza famaci anti-convulsivi, con l’evidente rischio di causare gravi danni al corpo del paziente; ed è altrettanto plausibile che a questo trattamento siano stati sottoposti non soltanto malati effettivi ma anche indesiderabili della società, ritenuti da rieducare a forza per l’inefficacia di tutti gli altri metodi (un’accusa tutt’ora rivolta a certe terapie farmacologiche e ai vecchi manicomi); e infine, va tenuto presente che i medici di un tempo, e le diagnosi di un tempo, ragionavano ed operavano su criteri differenti: ad esempio, l’elettroshock era allora considerato una valida risposta alla schizofrenia per semplice mancanza di studi e dati concreti su quel particolare disturbo, ora invece riconosciuto e trattato in maniere più consone.
La conclusione
In ultima analisi, si può a buon titolo dire che l’elettroshock goda di una (oggi) immeritata cattiva fama dovuta agli errori del passato – non è un trattamento da applicare a qualunque disturbo, certo, ma è uno strumento molto valido contro la depressione grave, con poche controindicazioni ed efficace sui pazienti immuni ai farmaci ma da adoperare con grande cautela, nel rispetto delle sue norme di sicurezza.